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A 40 anni dalla morte di Dino Buzzati si mantiene costante l’interesse del pubblico per un autore che seppe elevare a livello di arte un tema monocorde come quello della morte, presenza assillante anche per altri autori come Pavese o Hemingway ( che ad essa si arresero) ma che Buzzati seppe attendere a viso aperto, con paziente e sicura lucidità di stoico. Il tema della morte, che l’opulenza di minoranze autoreferenziali della società dei consumi e il materialismo superficiale quasi planetario tendono oggi a cancellare con eufemismi, o almeno a mascherare dietro il sipario di una recita quotidiana, assume in Buzzati una costanza e una linearità di espressione rare. Il sentimento, innato, della dignità umana gli fa interpretare il tema incombente, da taluni giudicato medievale, modernamente ma in sintonia con profonde radici classiche. Non c’è in lui la rasserenante e sicura fede nel trascendente, non c’è la banale reazione dell’avvinghiarsi all’immanente (propria di certi personaggi verghiani) né il più lieve e degno “carpe diem“ oraziano: la costante presenza della Grigia Ombra che incombe è solo sprone all’adempimento costante del proprio Dovere fino all’estremo nel cosciente eroismo quotidiano di una “ virtus” che è premio a se stessa senza speranza di premi ultraterreni. La descrizione del tema non giunge ai lievi e calligrafici, eterei, sospiri del gotico né alle disperate allucinazioni mitteleuropee proprie di un Kafka, ma rinnova il sentire degli antichi stoici nell’interpretazione della vita come attesa e come rinuncia, nel giudicare il successo delle nostre azioni non dipendente solo da noi e nel non cercare alcun genere di conforto ultraterreno a una presenza quotidianamente incombente, nell’angoscioso e misterioso senso di un comune destino. Opera centrale ed emblematica di Buzzati è “Il deserto dei tartari” in cui la scelta del mondo militare coinvolge esperienze vissute dall’autore, sia come ufficiale di complemento sia come giornalista di bordo nella battaglia di Capo Matapan. Nel Deserto dei Tartari l’inesorabile senso del trascorrere del tempo assume sia aspetti di compiacimento estetico nella pittorica descrizione della perfezione geometrica delle manovre e del garrire delle bandiere, al vento dei giorni, sia di analisi psicologica di massa nella interpretazione degli stati d’animo dei graduati, a cui la truppa serve solo da sfondo, col ruolo di comparsa, indurita in una attesa snervante. Particolarmente calibrate (e condivisibili da chi abbia ricoperto l’incarico di “ ufficiale di picchetto” ) sono le riflessioni dell’ufficiale di guardia alla ridotta, combattuto fra coscienza del proprio servizio e probabile inutilità dell’attesa, appesantita dalle limitazioni alla fisica libertà individuale inerenti allo stesso servizio. L’opzione del mondo militare come tema deriva, oltre che dalla istintiva simpatia dell’autore per un ambiente in cui la stessa uniforme è simbolo di scelta ed indica i gradi della gerarchia, dall’essere tale mondo espressione più facilmente decifrabile della realtà di ogni ambiente umano, ma con regole più lineari e rigide. Mancano i misteri affascinanti e rassicuranti della liturgia, ma la Fede nell’impegno quotidiano innalza a rito laico il ritmo regolare della Fortezza di confine, microcosmo vagante nel tempo e nello spazio, nel richiamare alla memoria antiche leggende sugli Ordini religioso-guerrieri (quali i templari e i cavalieri teutonici) nei loro aspetti, inscindibili, di eroismo ed ascesi che sembrano rinnovarsi in alcune riflessioni dell’autore:..” lasciare le piccole sicure gioie per un grande bene a lunga ed incerta scadenza..” e ancora…”..muri nudi ed umidi ,silenzio…” a descrivere con magica sintesi giornalistica la monacale povertà degli alloggi. L’ideale di vita eroico ispira una fusione fra le eleganti forme delle Accademie militari e il nobile romanticismo dell’Ottocento con il rigore, talora prussiano, di certi sottufficiali e la malinconia profonda, incerta fra pessimismo e declinante orgoglio della propria tradizione, che doveva forse aleggiare nelle guarnigioni delle lande di confine nel tardo impero romano. Un impero che veniva sgretolandosi non tanto per le pressioni migratorie dei popoli confinanti, quanto per la lenta e ormai inarrestabile scomparsa di quei valori che avevano fatto grande la antica repubblica: dal senso dello stato e del diritto al senso religioso dei legami familiari, ad una austera moralità. La linea dell’orizzonte, tanto scrutata (quasi per leggervi il futuro) dall’interno della Fortezza Bastiani, non è perimetro limitativo ma ponte di passaggio dalla realtà arida e pietrosa del deserto al sogno, dall’oggi anonimo al domani forse eroico: un domani che, fattosi oggi, confermerà essere la natura matrigna, ma mai potrà far cadere la speranza come respiro impalpabile e indefinibile, probabilmente sola ragione di vita. Il senso di ansia e di minacciosa quanto incombente attesa dell’ignoto, dinanzi a cui l’unica difesa è la coerenza del proprio agire, impone l’eroismo non come episodico lampo guerriero, ma come coraggioso levare il viso al misterioso avvicinarsi della Morte, affrontando quotidianamente il proprio compito, con la serena e lucida dedizione degli ultimi centurioni. Non c’è in Buzzati alcuna indulgenza per l’effimero, ma costanza di ispirazione e coerenza di comportamento: la vita “ viaggio senza ritorno” e l’inesorabile trascorrere del tempo “ lento fiume” che ricorda i presocratici, e in particolare Eraclito. E’ forse presente un blando influsso mazziniano che sembra trasparire dalla scelta dell’Etica del Dovere e dalla opzione ideale per il mondo militare (in cui il pensiero di Mazzini seppe tanto incidere). Scrisse Piovene di lui, con affettuosa sintonia di amico:…”il militarismo di Buzzati era amore per le discipline rigide, per le obbedienze volontarie, ma soprattutto, nel suo pessimismo integrale, una forma di morale stoica: servire con devozione, con fedeltà, per attestare una dignità disperata da far brillare un attimo sulle sponde del nulla, una bandiera, un’uniforme, un’impresa priva di scopo ma dignitosa e di coraggio. La morale dell’ultima sentinella di Pompei.” Alcuni critici hanno inteso sminuirne la personalità col farne quasi un epigono di Kafka, con decise ascendenze gotiche o fiamminghe, nella univocità del colore dominante. In realtà mi appare indubbia la originalità di ispirazione e di espressione: ne è testimone il costante interesse per la sua opera anche da parte delle nuove generazioni. Il tempo è giudice severo ma imparziale e sa distinguere la moda di un momento dalla vera arte. Mario Ettore Barnabé
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Mio padre Aurelio Barnabè comandante della terza compagnia del VI reggimento bersaglieri sul fronte russo è ancora costantemente ricordato dai pochissimi superstiti con affetto e ammirazione per aver condiviso sempre coi suoi bersaglieri ogni privazione e qualunque sacrificio in quelle tremende circostanze. Nel ricordarlo mi sembra che anche a lui si possano riferire le parole che nell’antica Roma il console Gaio Mario rivolse ai senatori preparandosi alla guerra contro Giugurta: .” E non ho studiato il greco: non me ne importava, perché vedevo quanto poco se ne fossero giovati quei maestri per la conquista della virtù. Ma altre cose ho imparato, di gran lunga più utili alla Repubblica: colpire il nemico, far la guardia, di nulla aver paura se non dell’infamia, sopportare caldo e geli, dormir per terra, tollerar nel contempo la fatica e la fame. Con questi insegnamenti darò l’esempio ai soldati…”( da Sallustio La guerra giugurtina LXXXIV) Pur decorato di medaglia di bronzo “ sul campo” e di medaglia d’argento Aurelio non volle mai ostentare le testimonianze del suo valore. Nella vita civile fu dirigente bancario insignito del cavalierato della Repubblica e seppe farsi circondare dalla stima e dall’affetto dei sottoposti per l’esempio costante di una cosciente e quotidiana applicazione al proprio dovere. Passeranno i decenni e, nonostante i numerosi onori postumi a lui conferiti dalle istituzioni civili e militari, anche di lui si affievolirà il ricordo, ma resteranno inalterati i valori di cui seppe essere esempio sia in pace che in guerra. Mario Ettore Barnabè
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Intervento di Maurizio Milan - dirigente del Centro Studi - apparso su L'Impresa n°12/2011 a pagina 97 ed on-line qui . L’ elemento fondamentale per un’azienda è il capitale umano con le sue competenze, i nuovi saperi e abilità, il suo engagement che va alimentato se a livello manageriale e formativo si lavora con le persone e non per le persone Maurizio Milan
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Sono trascorsi 50 anni dalla morte di Luigi Einaudi, ma mantiene vibrante attualità il messaggio federalista europeo che egli proclamò alla fine della prima guerra mondiale, e che solo l’insipienza e la miopia dei politici non volle ascoltare. Alla Costituente, il 29/7/1947, il grande economista ripropose lo stesso tema con analoga incisività, dopo la amara esperienza delle dittature nazionaliste che avevano condotto il mondo alla tragedia della seconda guerra mondiale: “ Se noi non sapremo farci portatori di un ideale umano e moderno nell’Europa di oggi, smarrita ed incerta sulla via da percorrere, noi siamo perduti e con noi è perduta l’Europa….è l’ideale della libertà contro l’intolleranza, della cooperazione contro la forza bruta. Vano è predicare pace e concordia, quando alle porte urge Annibale, quando negli animi di troppi europei tornano a fiammeggiare le passioni nazionalistiche. Non basta predicare gli Stati Uniti d’Europa: quel che importa è che i Parlamenti di questi minuscoli Stati i quali compongono la divisa Europa rinuncino ad una parte della loro sovranità a pro di un Parlamento nel quale siano rappresentati, in una Camera elettiva, direttamente i popoli europei nella loro unità, senza distinzione fra Stato e Stato ed in proporzione al numero degli abitanti, e nella Camera degli Stati siano rappresentati, a parità di numero, i singoli Stati. Questo è l’unico ideale per cui valga la pena di lavorare….Difendendo i nostri ideali a viso aperto noi avremo assolto il nostro dovere. Se, ciononostante, l’Europa vorrà rinselvatichire, noi non potremo essere rimproverati dalle generazioni venture degli italiani di non aver adempiuto sino all’ultimo al dovere di salvare quel che di divino e di umano esiste ancora nella travagliata società presente”. Al di là delle celebrazioni formali, che di certo non mancheranno ,il miglior omaggio alla memoria dell’autore delle prediche inutili sarebbe invece il dare ascolto alle sue parole, riconoscendone la evidente utilità. Mario Ettore Barnabè
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