Intervento del Prof. Gilberto Muraro sul tema della riforma universitaria apparso il 30 maggio 2011 su Il Piccolo di Trieste col titolo La scommessa del merito negli Atenei"
L’Università sta cambiando radicalmente la propria struttura. La riforma Gelmini impone che il potere di chiamata dei docenti, il più delicato tra i poteri nel mondo accademico, passi dalle aggregazioni didattiche a quelle scientifiche, ossia dalle facoltà ai dipartimenti; impone dipartimenti di almeno 40 docenti nei maggiori atenei ( di 35 in quelli con meno di mille docenti), tutti afferenti a settori disciplinari omogenei; impone che siano gli stessi dipartimenti a farsi carico dell’attività didattica, annullando le facoltà, salvo che non preferiscano costruire strutture di coordinamento interdipartimentali, comunque denominate, che non potranno essere più di dodici nell’Ateneo. E’ una riforma che promette maggiore produttività scientifica e didattica. In particolare è positivo che il potere di chiamata passi ai dipartimenti, soprattutto se si svilupperà il sistema di valutazione di ateneo e nazionale, con connessa erogazione di premi e penalità. Tutto è discutibile, ma la valutazione dei dipartimenti è più attendibile di quello delle facoltà, dove è difficile accertare la qualità del laureato e si rischia, premiando le facoltà con minori tassi di abbandono e minori ritardi di laurea, di stimolare la permissività e punire il rigore. Nel nuovo contesto c’è un interesse collettivo a ricevere più risorse grazie ad una buona valutazione. Dovrebbero perciò diminuire i voti di scambio che in certe facoltà hanno introdotto troppi parenti e affini e troppi allievi locali. Al contempo, attenzione a non passare da un estremo all’altro. Il pericolo di autoreferenzialità dei dipartimenti è elevato e potrebbe portare a percorsi didattici su misura, dove si sacrifica la complementarietà dei saperi e si ingessa la ripartizione degli apporti didattici rispetto all’evoluzione delle esigenze formative della società. Due suggerimenti, allora, per cercare di evitare il peggio e trarre il meglio dalla riforma. Primo: i dipartimenti siano davvero ampi e omogenei, tranne casi, che devono essere rari, di dipartimenti tematici dove la complementarietà prevale sull’affinità. Il fenomeno dei gruppi di studiosi dello stesso settore ferocemente nemici o che comunque non stanno bene insieme è limitato ma non eccezionale, qualche volta ha pure stimolato una proficua competizione, in ogni caso non si trova solo in Italia. Ma solo qui, per quanto a mia conoscenza, si fanno le strutture a misura di chi c’è oggi, dimenticando che le persone passano mentre le strutture rimangono e che le duplicazioni costano alla collettività. Va sottolineato che gli atteggiamenti cambiano se si crea il contesto per un loro positivo cambiamento: da un lato, nel dipartimento ampio ognuno si interfaccia con chi vuole e si colloca dove vuole, sicché scompare la conflittuale convivenza forzata dei piccoli gruppi in spazi ristretti; dall’altro lato, la valutazione sistematica di ateneo e nazionale riduce la necessità di affermarsi attraverso continui scontri interni. Non consentire quindi che si formino piccoli dipartimenti affini o che gruppi di studiosi afferiscano a dipartimenti diversi da quello di logica pertinenza, oltretutto inquinando l’omogeneità dei dipartimenti che li accolgono. Secondo suggerimento: privilegiare la creazione di strutture interdipartimentali per la didattica, magari conferendo voto ponderato ai diversi dipartimenti quando il loro ruolo nel percorso formativo sia differenziato. Il sistema gestionale degli atenei sul fronte della formazione dovrebbe quindi configurare un sistema a matrice, con i dipartimenti che formano e conferiscono gli input alle “strutture” che li assemblano per produrre l’output: schema pienamente applicabile senza eccessivi sforzi, soprattutto se si tiene alto il potere di autorizzazione, controllo e intervento degli organi centrali di ateneo.
|