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Dino Buzzati, a 40 anni dalla morte PDF
lunedģ 26 marzo 2012
A 40 anni dalla morte di Dino Buzzati si mantiene costante l’interesse del pubblico per un autore che seppe elevare a livello di arte un tema monocorde come quello della morte, presenza assillante anche per altri autori come Pavese o Hemingway ( che ad essa si arresero) ma che Buzzati seppe attendere a viso aperto, con paziente e sicura lucidità di stoico. Il tema della morte, che l’opulenza di minoranze autoreferenziali della società dei consumi e il materialismo superficiale quasi planetario tendono oggi a cancellare con eufemismi, o almeno a mascherare dietro il sipario di una recita quotidiana, assume in Buzzati una costanza e una linearità di espressione rare. Il sentimento, innato, della dignità umana gli fa interpretare il tema incombente, da taluni giudicato medievale, modernamente ma in sintonia con profonde radici classiche. Non c’è in lui la rasserenante e sicura fede nel trascendente, non c’è la banale reazione dell’avvinghiarsi all’immanente (propria di certi personaggi verghiani) né il più lieve e degno “carpe diem“ oraziano: la costante presenza della Grigia Ombra che incombe è solo sprone all’adempimento costante del proprio Dovere fino all’estremo nel cosciente eroismo quotidiano di una “ virtus” che è premio a se stessa senza speranza di premi ultraterreni. La descrizione del tema non giunge ai lievi e calligrafici, eterei, sospiri del gotico né alle disperate allucinazioni mitteleuropee proprie di un Kafka, ma rinnova il sentire degli antichi stoici nell’interpretazione della vita come attesa e come rinuncia, nel giudicare il successo delle nostre azioni non dipendente solo da noi e nel non cercare alcun genere di conforto ultraterreno a una presenza quotidianamente incombente, nell’angoscioso e misterioso senso di un comune destino.
Opera centrale ed emblematica di Buzzati è “Il deserto dei tartari” in cui la scelta del mondo militare coinvolge esperienze vissute dall’autore, sia come ufficiale di complemento sia come giornalista di bordo nella battaglia di Capo Matapan. Nel Deserto dei Tartari l’inesorabile senso del trascorrere del tempo assume sia aspetti di compiacimento estetico nella pittorica descrizione della perfezione geometrica delle manovre e del garrire delle bandiere, al vento  dei giorni, sia di analisi psicologica di massa nella interpretazione degli stati d’animo dei graduati, a cui la truppa serve solo da sfondo, col ruolo di comparsa, indurita in una attesa snervante. Particolarmente calibrate (e condivisibili da chi abbia ricoperto l’incarico di “ ufficiale di picchetto” ) sono le riflessioni dell’ufficiale di guardia alla ridotta, combattuto fra coscienza del proprio servizio e probabile inutilità dell’attesa, appesantita dalle limitazioni alla fisica libertà individuale inerenti allo stesso servizio. L’opzione del mondo militare come tema deriva, oltre che dalla istintiva simpatia dell’autore per un ambiente in cui la stessa uniforme è simbolo di scelta ed indica i gradi della gerarchia, dall’essere tale mondo espressione più facilmente decifrabile della realtà di ogni ambiente umano, ma con regole più lineari e rigide. Mancano i misteri affascinanti e rassicuranti della liturgia, ma la Fede nell’impegno quotidiano innalza a rito laico il ritmo regolare della Fortezza di confine, microcosmo vagante nel tempo e nello spazio, nel richiamare alla memoria antiche leggende sugli Ordini religioso-guerrieri (quali i templari e i cavalieri teutonici) nei loro aspetti, inscindibili, di eroismo ed ascesi che sembrano rinnovarsi in alcune riflessioni dell’autore:..” lasciare le piccole sicure gioie per un grande bene a lunga ed incerta scadenza..”  e ancora…”..muri nudi ed umidi ,silenzio…” a descrivere con magica sintesi giornalistica la monacale povertà degli alloggi.
L’ideale di vita eroico ispira una fusione fra le eleganti forme delle Accademie militari e il nobile romanticismo dell’Ottocento con il rigore, talora prussiano, di certi sottufficiali e la malinconia profonda, incerta fra pessimismo e declinante orgoglio della propria tradizione, che doveva forse aleggiare nelle guarnigioni delle lande di confine nel tardo impero romano. Un impero che veniva sgretolandosi non tanto per le pressioni migratorie dei popoli confinanti, quanto per la lenta e ormai inarrestabile scomparsa di quei valori che avevano fatto grande la antica repubblica: dal senso dello stato e del diritto al senso religioso dei legami familiari, ad una austera moralità. La linea dell’orizzonte, tanto scrutata (quasi per leggervi il futuro) dall’interno della Fortezza Bastiani, non è perimetro limitativo ma ponte di passaggio dalla realtà arida e pietrosa del deserto al sogno, dall’oggi anonimo al domani forse eroico: un domani che, fattosi oggi, confermerà essere la natura matrigna, ma mai potrà far cadere la speranza come respiro impalpabile e indefinibile, probabilmente sola ragione di vita. Il senso di ansia e di minacciosa quanto incombente attesa dell’ignoto, dinanzi a cui l’unica difesa è la coerenza del proprio agire, impone l’eroismo non come episodico lampo guerriero, ma come coraggioso levare il viso al misterioso avvicinarsi della Morte, affrontando quotidianamente il proprio compito, con la serena e lucida dedizione degli ultimi centurioni.
Non c’è in Buzzati alcuna indulgenza per l’effimero, ma costanza di ispirazione e coerenza di comportamento: la vita “ viaggio senza ritorno” e l’inesorabile trascorrere del tempo “ lento fiume” che ricorda i presocratici, e in particolare Eraclito. E’ forse presente un blando influsso mazziniano che sembra trasparire dalla scelta dell’Etica del Dovere e dalla opzione ideale per il mondo militare (in cui il pensiero di Mazzini seppe tanto incidere). Scrisse Piovene di lui, con affettuosa sintonia di amico:…”il militarismo di Buzzati era amore per le discipline rigide, per le obbedienze volontarie, ma soprattutto, nel suo pessimismo integrale, una forma di morale stoica: servire con devozione, con fedeltà, per attestare una dignità disperata da far brillare un attimo sulle sponde del nulla, una bandiera, un’uniforme, un’impresa priva di scopo ma dignitosa e di coraggio. La morale  dell’ultima sentinella di Pompei.”
Alcuni critici hanno inteso sminuirne la personalità col farne quasi un epigono di Kafka, con decise ascendenze gotiche o fiamminghe, nella univocità del colore dominante. In realtà mi appare indubbia la originalità di ispirazione e di espressione: ne è testimone il costante interesse per la sua opera anche da parte delle nuove generazioni. Il tempo è giudice severo ma imparziale e sa distinguere la moda di un momento dalla vera arte.
Mario Ettore Barnabé

 
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