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Quel rompicapo del debito pubblico italiano PDF

Dopo quattro mesi di dati in calo il debito pubblico italiano, in valori assoluti, è  tornato a salire nel mese di ottobre 2007  toccando un livello mai raggiunto a quota 1.629,7 miliardi di euro.

Sempre in valore assoluto, rispetto a settembre 2007 la crescita del debito e' di oltre 10 miliardi di euro e rispetto invece a ottobre 2006 lo stock del debito e' addirittura superiore di piu' di 25 miliardi di euro.

Tuttavia, ai fini del patto di stabilita' europeo e' il rapporto percentuale del debito rispetto al Pil ad avere valore e sotto questo profilo nei mesi scorsi Bankitalia aveva comunicato che nel 2007 questo rapporto avrebbe dovuto scendere sotto il 105%, ovvero "dovrebbe collocarsi - per ricordare le parole del documento di Palazzo Koch - su livelli inferiori alle stime indicate dal Governo a fine settembre".

Così, alcuni mesi fa, Rainews 24 comunicava l’informazione relativa al debito pubblico italiano, ...

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Dopo quattro mesi di dati in calo il debito pubblico italiano, in valori assoluti, è  tornato a salire nel mese di ottobre 2007  toccando un livello mai raggiunto a quota 1.629,7 miliardi di euro.

Sempre in valore assoluto, rispetto a settembre 2007 la crescita del debito e' di oltre 10 miliardi di euro e rispetto invece a ottobre 2006 lo stock del debito e' addirittura superiore di piu' di 25 miliardi di euro.

Tuttavia, ai fini del patto di stabilita' europeo e' il rapporto percentuale del debito rispetto al Pil ad avere valore e sotto questo profilo nei mesi scorsi Bankitalia aveva comunicato che nel 2007 questo rapporto avrebbe dovuto scendere sotto il 105%, ovvero "dovrebbe collocarsi - per ricordare le parole del documento di Palazzo Koch - su livelli inferiori alle stime indicate dal Governo a fine settembre".

Così, alcuni mesi fa, Rainews 24 comunicava l’informazione relativa al debito pubblico italiano, l’eterno incompiuto che da molti,troppi anni, costituisce la spada di Damocle  per qualsivoglia politica economica si intenda adottare nel nostro Paese.
Una doccia scozzese continua fatta di inquietanti presagi e/o di ottimistiche previsioni, a seconda dei tempi e dei comunicatori ufficiali e ufficiosi dei molti governi che si sono succeduti alla guida dell’Italia, nella Prima come nell’oramai esausta  Seconda Repubblica.

Recentemente la Fondazione Edison, aveva individuato nelle quattro “D” (Debito pubblico, Divario Nord-Sud, Deficit energetico ed infrastrutturale, Differenza fiscale) le ragioni che impediscono all’Italia di svilupparsi. Sono condizioni di oggettivo sfavore del nostro Paese rispetto agli altri con cui ci si confronta nel mercato globale e tali da frenarne pesantemente l’economia.

Marco Fortis, autore del pregevole rapporto Edison citato, fotografa in estrema sintesi la nostra attuale situazione: ogni anno un italiano paga 1.159 euro di interessi sul debito pubblico (790 in più di uno spagnolo), riceve 3.592 dollari di spesa pubblica di qualità (1.700 in meno rispetto a un francese), soffre di un deficit energetico verso l’estero di 851 euro. E nessun altro grande paese dell’Europa occidentale ha 16 milioni di concittadini che abitano in regioni depresse.

Per colpa dell’immenso debito pubblico, quasi 1.600 miliardi di euro, l’Italia ha pagato nel 2006 oltre 68 miliardi di interessi: cioè 3 miliardi di euro più della Germania, quasi 22 miliardi più della Francia, 28 miliardi più della Gran Bretagna e 52 miliardi più della Spagna. In quest’ultimo paese gli oneri sul debito pubblico incidono solo per l’1,6 per cento del pil contro il 4 dell’Italia. Il pagamento degli interessi sul debito pubblico sottrae ogni anno risorse preziose che potrebbero essere altrimenti destinate a maggiori investimenti infrastrutturali, oppure a permettere una consistente riduzione delle tasse. Il carico di debito pubblico che grava su ogni cittadino italiano ammonta a 26.816 euro, contro valori molto più bassi negli altri quattro maggiori paesi europei: 19.026 euro per abitante in Germania, 18.260 in Francia, 13.909 in Gran Bretagna, solo 8.893 euro in Spagna. Così, rispetto a uno spagnolo, il carico di interessi sul debito pubblico sulle spalle di un singolo cittadino italiano è stato nel 2006 di 791 euro più elevato: 1.159 euro contro 368 euro.
Ogni italiano ha sulle spalle quasi 27 mila euro di debito
Insomma sebbene il governatore Mario Draghi continui a sostenere la solidità del sistema finanziario italiano, non v’è dubbio che in Italia non potremmo concludere con la celebre frase di Ronald Reagan pronunciata in risposta a chi gli faceva notare la grandezza del debito pubblico americano, ossia che “ il debito è abbastanza grande da poter badare a se stesso”. Se non cominciamo a pensarci e seriamente ogni discussione politica rischia di diventare sterile accademia o, peggio, fumosa propaganda.
I dati sue esposti li ho desunti da un recente saggio del prof. Giuseppe Guarino, uno dei maggiori, se non il più importante, studioso del debito pubblico italiano che ha appena ultimato un suo ultimo lavoro che verrà pubblicato in questi giorni a Firenze alla vigilia della ratifica del Trattato di Lisbona.
La tesi esposta da Guarino è la seguente: tra il trattato di Maastricht e quello di Lisbona di prossima  ratifica esiste una stretta connessione  con pesanti conseguenze per l’Italia, sia dal punto di vista costituzionale che della stessa capacità di tenuta finanziaria del Paese.

Alcune note sul debito pubblico italiano

Il Trattato di Maastricht, come è noto, impone ai Paesi che fanno parte del sistema dell’euro ( sono 13 sui 27 che fanno parte del  mercato comune) un tetto invalicabile: il debito delle pubbliche amministrazioni non deve superare il 60% nel rapporto con il PIL. In Italia il debito pubblico al 31 dicembre 2006 era pari al 106,8 %, ossia circa 47 punti in più del limite consentito. Questi 47 punti hanno comportato nel 2006 un onere per interessi di 30 miliardi di euro, pari a circa il 2 % del PIL.

Se è chiara la patologia (insufficienza delle risorse) e così pure la diagnosi (la causa va riposta nel volume del debito pubblico) manca la terapia. Spetta al ministro dell’economia indicarla con il presidente del Consiglio. Sino ad ora, però, da molti governi a questa parte, si è rimasti silenti, preferendo trattare il problema in maniera tale da non creare allarmismi. Ci si è basati sull’avanzo primario ( ossia il saldo attivo del bilancio esclusi gli interessi sul debito) fiduciosi di un avanzo annuale tale da garantire  negli anni la riduzione del debito sino al suo annullamento.

L’avanzo primario avrebbe dovuto derivare per effetto combinato della crescita del PIL, attesa quale naturale conseguenza della stabilità dei prezzi, e a seguito della ristrutturazione della spesa (leggi riduzione) che avrebbe riguardato i settori più incidenti: contrattazione salariale, pensioni, sprechi nella sanità, riduzione degli organici della PA.

Ebbene le vendite di patrimonio societario  pubblico effettuato e gli avanzi primari che ne conseguivano, specie negli anni 1995-2000, hanno attenuato l’impatto del debito, ma non hanno risolto il problema. Anzi nei quindici anni dal 1 gennaio 1992 al 31 dicembre 2006 (moneta 2005) gli interessi corrisposti per la parte del debito eccedente il 60% del PIL (limite massimo consentito dal Trattato di Maastricht) hanno raggiunto l’astronomica cifra di 728 miliardi di euro ai quali vanno aggiunti i 191 miliardi di euro ricavati dalle privatizzazioni, Insomma un totale di 919 miliardi di euro. Un salasso che sta per portarci alla bancarotta e che non ha risolto, ma anzi aggravato il problema. In 15 anni di costante applicazione del criterio dell’avanzo temporaneo, quello sin qui suggerito dall’UE, se al 1 gennaio 1992 l’Italia presentava un rapporto debito/PIL pari al 98%, a fine del 2006 lo stesso rapporto era aumentato al 106,8%.
Vale la pena di ricordare che per ridurre il volume del debito del 2 per cento all’anno occorrono nell’immediato 30 miliardi. Con i chiari di luna sull’andamento probabile del PIL, almeno sino a qualche anno fa, non ci restava che una soluzione nuova e immediata: vendere in maniera intelligente il patrimonio pubblico ricorrendo alle armi del diritto privato. Con la nuova situazione dei valori del mercato mobiliare e immobiliare questa stessa ricetta risulta adesso di ancor più difficile, se non impossibile, applicazione.
Questa è la tesi sostenuta con estremo rigore dal prof Guarino, già diversi anni prima dell’entrata in vigore del trattato di Maastricht; da lui sviluppata, poi,  coerentemente negli anni che vanno dal 1992 al 2006 e che, con la nuova situazione dei mercati mobiliari e immobiliari, nella totale passività dei diversi governi che si sono succeduti sin qui alla guida del Paese, supinamente ossequienti alle indicazioni comunitarie, risulta ancor più drammaticamente reale.
Con lui e con Nino Galloni, unitamente al prof. Roberto Fini, dell’università Cà Foscari di Venezia, con i politici Onn. Tabacci della Rosa Bianca e Stradiotto del PD  abbiamo discusso di questi temi a Treviso, Sabato 17 Maggio, presso la Sala dei Carraresi della Fondazione Cassa Marca.
Sono emerse posizioni articolate, ma tutte convergenti nel considerare il tema del debito pubblico come il tema centrale e prioritario della politica economica.
Il prof Guarino, nel suo intervento, ha evidenziato le enormi conseguenze che un’approvazione acritica del prossimo trattato di Lisbona provocherebbe all’Italia,dato che, dopo 16 anni in cui, seguendo il criterio dell’Unione Europea di riduzione del disavanzo, avendo sprecato 919 miliardi di euro, essa si ritrova nelle condizioni peggiori di quelle d’inizio (rapporto deficit/Pil al 2007 del 104%, contro il 98% del 1992). Ha quindi aggiunto, con ampi riferimenti ai diversi articoli del Trattato, che, anche volendolo considerare solo dal punto di vista della coerenza  costituzionale, nella sua attuale formulazione   l’Italia non può e non deve ratificarlo, pena ulteriori conseguenze gravissime sia da un punto di vista costituzionale che finanziario.
Gli Onn. Tabacci e Stradiotto, sostenendo che, sarebbe, tuttavia, un grave errore attribuire le responsabilità del debito a sole cause esogene, hanno ricordato la  necessità che tutto il Paese nelle sue diverse componenti sappia reagire e ritrovare la volontà di una nuova stagione dei doveri.
Hanno ribadito che prima esigenza resta quella della  crescita del Paese, cui deve accompagnarsi una strenua lotta contro un’evasione fiscale drammaticamente elevata,  collegata ad un sommerso  (30% e oltre del PIL) del tutto incompatibile   con gli standard dei più importanti Paesi Europei. Insieme a ciò,per gli esponenti delle due opposizioni parlamentari, si tratta di attivare  una diversa organizzazione del bilancio statale e di  ridurre la spesa cattiva a vantaggio di quella buona, così come non va abbandonata la strada a suo tempo indicata (Convegno di Ferrara del 2006), proprio dal prof Guarino, di una diversa allocazione del patrimonio residuo pubblico e dello stesso debito .
Una tesi particolarmente interessante esposta dal Prof Guarino è la seguente:
le diverse situazioni esistenti oggi tra i 13 Pesi- euro rispetto agli altri Paesi (caso della Gran Bretagna e della Danimarca per i quali è stata inventata la formula dell’”opting out”, ossia la possibilità di sottoscrivere il Trattato senza aderire all’Unione monetaria; ad esse vanno aggiunti i restanti 12 Stati entrati successivamente nell’Unione con deroga) mentre impongono ai primi i pesanti condizionamenti derivanti dai vincoli di Maastricht, garantisce ai secondi, senza l’obbligo di rispettare quei vincoli, tutte le opportunità offerte dall’euro e dal mercato comune. Ne derivano disuguaglianze pesanti e forti diseconomie, specie sul piano dei diversi trattamenti fiscali, tali che , se non venissero riequilibrate,  determinerebbero  una condizione iugulatoria per l’Italia, il cui patrimonio pubblico statale, ai valori attuali di mercato, a differenza di quanto valeva nel 1992 e/o anche solo alcuni anni fa, non è più in grado da solo di compensare l’enorme montagna del debito accumulato. Personalmente ho anche evidenziato il fatto che siamo entrati nell’euro con una sopravvalutazione della lira (cambio 1936,27 Lire per un euro) di almeno il 25-30% più elevato del suo valore reale, offrendo un immediato vantaggio competitivo ai nostri tradizionali concorrenti europei e mondiali.
A questo punto possiamo solo sperare  che il nuovo governo sappia affrontare e risolvere questo che costituisce, a nostro parere e per quanto è stato confermato dal convegno, il problema dei problemi italiani. E’ un problema reale, grave e indilazionabile e di cui dovremmo essere tutti consapevoli della sua drammaticità ed urgenza.

Ettore Bonalberti

 
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