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Per uscire dalla crisi PDF

Verso la strada del cambiamento
Enrico Cisnetto

Per uscire dalla crisi buttiamo via il “vecchio improduttivo” a favore del “nuovo competitivo”

Già, ha proprio ragione il presidente Napolitano, la crisi è davvero una “grande occasione”. In particolare, lo è per riformulare un giudizio sul nostro apparato produttivo – dopo anni di una generale sopravvalutazione del sistema industriale, e in particolare del ruolo delle piccole e piccolissime imprese – e di conseguenza, per riarticolarlo su basi più in linea con i dettami della globalizzazione. Certo, il Capo dello Stato non poteva andare oltre le sue pur chiare parole – “valorizzare le energie vitali, superare le debolezze, risolvere di slancio i problemi che ci trasciniamo” – ma è evidente come Egli abbia inteso riferirsi anche all’irrisolta evoluzione di un capitalismo fatto di poche grandi imprese super-protette ma incapaci di giocare una partita nello scenario globale (si pensi alla Fiat per tutte), di un numero troppo ridotto di medie imprese con buone performance (specie nell’export) e di milioni di piccole e minuscole imprese nella loro maggioranza fuori mercato ma mantenute in vita in questi anni da un credito facile e a basso costo (checché se ne dica), da un alto livello di evasione e di ricorso al nero e da proventi straordinari per operazioni immobiliari e finanziarie. Sì, lo so, ho detto una sequela di cose politicamente scorrette, ma sarà bene prendere l’abitudine, nell’affrontare il “terribile 2009” (la definizione è di quell’ottimista incallito di Berlusconi), di smetterla con le verità di comodo. No, se da 15 anni scivoliamo sul piano inclinato del declino, se siamo l’unico paese occidentale a chiudere il 2008 con il segno meno e se la recessione ci porterà nel 2009 un’ulteriore decurtazione del pil ben maggiore di quella che dovranno subire gli altri paesi (pronostico tra -2% e -3%), un motivo ci sarà, e non sarà colpa solo degli statali fannulloni (che pure abbondano) o dei banchieri ingordi (i cui istituti di credito prima vengono puniti con la “robin tax” per eccesso di guadagni e solo qualche settimana dopo vengono salvati dal fallimento): il motivo è che abbiamo creduto di possedere un sistema produttivo, e invece ne abbiamo un altro, decisamente peggiore.

Ma non è per amore di polemica che dico questo – figuriamoci, poi, a Capodanno – bensì perché siamo di fronte ad un bivio, come ci ha detto con lucidità il Presidente della Repubblica: da un lato, c’è la strada “conservatrice” del piagnisteo e del conseguente arroccamento; dall’altra, quella “del cambiamento”, cioè della mentalità che porta a considerare la crisi come un’occasione più unica che rara per buttar via il “vecchio improduttivo” a favore del “nuovo competitivo”. Tradotto, si tratta di decidere se spendere le risorse che abbiamo a disposizione – poche, se non facciamo le riforme strutturali di previdenza, sanità, assetti istituzionali e burocratici, debito pubblico, tante se si avrà il coraggio di farle (ho già scritto in questa rubrica di una cifra intorno ai 200 miliardi) – per conservare le aziende che ci sono e i relativi posti di lavoro, oppure per inventarne di nuove (anche dalla fusione delle vecchie) che per attività, dimensione, capitalizzazione e grado di internazionalizzazione (che non vuol più dire esportare, bensì produrre e vendere in tutto il mondo) siano capaci di competere nel mercato globale.

Guardate, qui si può usare tutto il gradualismo che si vuole, ma o s’imbocca la prima o la seconda, di strada, e nel scegliere bisogna essere conseguenti. Perché, per esempio, se si volge il welfare verso la conservazione dei posti di lavoro improduttivi (perché lo erano già o perché sono stati “bruciati” dalla recessione), allora possiamo scordarci di avere la risorse per rilanciare l’economia adeguando il nostro capitalismo alle nuove esigenze produttive. Mentre, al contrario, se si riducono le protezioni per l’esistente – per essere chiari: lasciando fallire le imprese e non applicando ammortizzatori “conservativi” – allora si recuperano le risorse sia per aiutare i disoccupati, sia per sostenere le imprese che hanno futuro, sia per crearne di nuove.

Il Governo, in nome della retorica confindustriale e della pace sindacale (Cgil esclusa), sembra aver imboccato la prima strada, come ha confermato il ministro Sacconi nel nostro dialogo a “Cortina InConTra” edizione invernale il 28 dicembre. E’ comprensibile, ma non approvabile. D’altra parte, non avendo messo nel suo programma e dunque al centro della sua azione la “politica industriale” – salvo doverla scimmiottare quando è arrivata la crisi finanziaria mondiale e la conseguente recessione (a proposito, ma il ministro Tremonti non aveva previsto tutto?) – il rischio sarebbe quello di lasciar chiudere le imprese e poi non avere uno straccio di idea su come fare a rimpiazzarle, essendo chiaro che tutelare il mercato e abiurare lo statalismo non significa venir meno al dovere delle strategie. Insomma, a essere conservatori siamo predisposti – imprenditori, sindacati, politica – ma perderemmo una (l’ultima?) grande occasione di modernizzazione del Paese, mentre se dovessimo atteggiarci a innovatori rischieremmo di fare un disastro. Comunque sia, il 2009 sarà un anno di…

"Il Foglio" venerdì 2 gennaio 2009

 

 
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